Résumé

Lucretius’s poem let us perceive the world as a large fabric made of atomic threads and void. Things are woven, the same goes for simulacra, which are very thin fabrics. The events of the world are fabrics that meet or tear, this applies as much to the process that constructs reality as to the way in which we know things. The art of weaving and the mythical-poetic diction which is a consequence of the divine Verwobenheit are the two poles that allow us to understand the meaning of De rerum natura as a simulacral fabric which explains the way of functioning of matter and its processes of organization.

Index

Keywords

Lucretius, Atomism, Textile Art, Myth

Plan

Texte

Ed è come un tessuto di nubi sotto l’azzurro
Lucrezio

Il Cratilo paragona la dialettica all’arte della tessitura, Socrate dice a Ermogene che le parole servono a separare le cose ma anche a mostrarne i legami. Il dialettico fa come quelli che lavorano a un vestito e hanno bisogno di almeno due operazioni: il lavoro preparatorio della cardatura che separa i fili della matassa, rendendoli paralleli, e la tecnica della spola che serve a intrecciarli. Nel Sofista il compito del dialettico è afferrare con il pensiero e il discorso la sumplokē tōn eidōn, l’annodatura delle idee. Il buon tessuto dialettico distingue e intreccia le parole nel modo in cui sono distinti e annodati i fili della realtà. Un tessuto cattivo è quello in cui trama e ordito non rispecchiano gli intrecci delle cose e dei generi d’appartenenza. Il buon testo riproduce la realtà, le parole sono “segni rivelatori (dēlōmaton) circa la natura delle cose”, rivelano (deloūn) l’intreccio oggettivo delle idee. Nel testo cattivo, invece, i fili si aggrovigliano a casaccio o, al contrario, sono troppo separati per rispecchiare la realtà. Il testo cattivo non è un intreccio di dēlōmata ma un eidōlon, un simulacro.

La hybris del simulacro è quando si rende autonomo, non accetta di commisurarsi al modello e va per la sua strada, i segni prendono a scambiarsi fra loro senza più scambiarsi con la realtà, il segno non rivela più la cosa ma soltanto altri segni. “Nominare iniziale e chiacchiera finale” diceva Heidegger commentando Platone (Heidegger, 2013, p. 599), tragitto dal dēlōma all’eidōlon in cui le parole perdono il potere di rappresentazione e si chiacchiera per chiacchierare, vengono fabbricate immagini senza referente. Soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Novecento la società occidentale è diventata la scaturigine e il ricettacolo di un profluvio di simulacri ai quali non è possibile – o è molto difficile – assegnare un modello. Nessun’altra umanità aveva visto la medesima figura – il volto di un’attrice, un re in esilio, una zuppa in scatola – replicata milioni di volte in tutti i luoghi dello spazio (Dorfles, 1971, pp. 35-40) e questa cosa ci sembra molto frastornante. In realtà già il mondo di Lucrezio è fatto così: la regione dell’Aria è riempita dai simulacri di tutte le cose e lanciati verso ogni angolo dove c’è un’anima pronta a raccoglierli.

1. Fili

Le cose di Lucrezio sono caleidoscopiche almeno quanto i corpi di Ovidio sono gommosi. Ma forse il caleidoscopio è un’analogia inesatta, perché gli elementi di cui sono fatte le cose non assomigliano a pezzettini di vetro ma a fili. Di solito immaginiamo gli atomi come granelli di materia rigida, piccolissimi, e allora la differenza tra un atomo e le Dolomiti sarebbe soltanto di dimensione. Invece la differenza è radicale perché gli atomi non sono cose, res, per quanto minuscole, ma inizi di cose, primordia rerum. Tutto è materia, esiste soltanto la materia, che però contempla tre livelli: uno stato zero (il vuoto), uno stato minimo (gli atomi), uno stato reale (gli aggregati di atomi, dalle molecole in su). Fin da subito lo stato zero della materia si è tradotto nel suo stato minimo: il vuoto si trova eternamente popolato dagli atomi che, contratti in se stessi, resistono all’infinita dispersione del vuoto. Gli atomi stanno a mezzo tra il vuoto e le cose, sono abbozzi di cose, cose allo stato incoativo. Gli atomi possiamo immaginarli piccoli come zampe di millepiedi oppure grandi come una casa, non è questo l’importante, ci sbagliamo comunque, perché l’atomo non ha misura. Gli atomi sono il primo tracciato di ogni dimensione, sono il moltiplicato contraccolpo della discontinuità dentro la continuità del vuoto. Per raffigurarli possiamo immaginare una superficie incolore, una specie di trasparenza assoluta, che viene qua e là bucata da esplosioni. Oppure un cielo nero attraversato da stelle filanti.

Gli atomi – dice Lucrezio – sono primordia ovvero exordia, due parole che hanno a che fare con l’“ordito” e infatti significano i fili con i quali si comincia il lavoro della tessitura. Primordia rerum alla lettera vuol dire che gli atomi sono i primi fili delle cose, le quali sono dunque dei tessuti. Quando Lucrezio deve spiegare la diversità degli atomi e le loro forme specifiche dice così: “non debbono, ovviamente, esser tutti dotati di uguale tessitura, né simile struttura (pari filo similique adfecta figura)” (Lucrezio 1992, II, vv. 340-341). Gli atomi sono fili ciascuno con la sua forma, che spuntano dentro il grande arcolaio del vuoto, e questa non è una metafora, l’atomo è davvero un filo, anche se è impalpabile. Filum viene dalla radice indoeuropea *figl che è la stessa di figura e fingo, e in latino significa: fibra per tessere, tela del ragno, corda di uno strumento musicale, stoppino di candela, ma può anche indicare l’estensione di una vita oppure uno stile oratorio (Lackenbacher, 1922, p. 132). In Lucrezio filum alle volte vuol dire “figura” e “aspetto”, come quando argomenta sulla grandezza del sole e delle stelle (Lucrezio 1992, V, vv. 581-589), altrove indica la tessitura interna, la struttura di una cosa (Dubova, 2017, pp. 136-137). Filum dice l’interno e l’esterno, la struttura e l’aspetto di una cosa, che differiscono sempre. L’unico caso in cui i due significati coincidono è rappresentato dai primordia o exordia, cioè gli atomi, che non hanno interno o esterno perché sono privi di spessore, ma che annodandosi producono lo spessore delle cose.1

A differenza di quelli moderni, nei telai che si usavano a Roma il tessuto veniva lavorato a partire dall’alto e per completare la cardatura – la separazione delle fibre – i fili venivano tenuti in tensione da dischetti di metallo legati al capo inferiore. I fili atomici cadono, pencolano nel vuoto, pesano, sono fatti di gravitas, un concetto che indica subito le due fondamentali tendenze di ogni atomo: rispetto al vuoto e rispetto agli altri atomi. È perché pesa che l’atomo cade nel vuoto e disegna un tragitto parallelo a quello degli altri. Contro l’opinione strutturalista che emerge nel Sofista circa l’impossibilità “che tutto possa essere separato da tutto”, è invece proprio così che per Lucrezio le cose hanno inizio: con la grande cardatura atomica, cioè con la separazione dei fili che precipitano. Anche dopo che la deviazione del clinamen li ha fatti incontrare e hanno stretto dei nodi, i fili atomici conservano la tendenza alla caduta e alla fuga di cui consistono in quanto exordia. L’intima vocazione di ogni atomo è secessionistica. Ogni corpo è un nodo che però presuppone lo scioglimento al quale il tessuto cosale rimane esposto sempre e comunque.

2. Tessuti

“Il tessuto di una cosa”, dice Lucrezio, “ovvero la sua natura”. L’espressione naturam textaque rerum (Lucrezio 1992, VI, v. 997) è una endiadi. I tre macrocorpi più importanti, Mare Terra Aria, sono chiamati tria texta (V, v. 95), le “tre stoffe”. Sono un tessuto le frecce del sole, ma anche l’ombra con la quale la notte ricopre la Terra (VI, v. 852). La natura tessile delle cose è la ragione della loro tenuta e, insieme, della distruggibilità:

una medesima forza e causa distruggerebbe ovunque tutte le cose, se non le conservasse una materia eterna, meno o più serrata nell’intreccio delle sue parti. Un contatto sarebbe causa bastante di morte, perché non ci sarebbero particelle di sostanza eterna, il cui intreccio una singola forza dovesse sciogliere. Siccome molti tipi di intrecci legano fra loro i princìpi, e la materia è eterna, le cose mantengono indenne il proprio corpo, fino a quando vada loro incontro una forza tanto viva che basti a spezzare il tessuto di ciascuna (I, vv. 241-247).

Contextus, nexus, indupedita, textura: è il lessico della tessitura a informare di sé questo passo in cui viene detto che le cose ci sono e durano fino a quando la loro stoffa viene lacerata. Ad esempio, il calore del lampo penetra nell’oro e “in un attimo si sciolgono tutti i nodi e allentano i legami” (VI, 356), la rete interna del metallo si sfilaccia. Il tessuto delle cose può venir distrutto perché al proprio interno custodisce (cohibet) il vuoto (I, vv. 515-517), mentre i singoli fili atomici, non partecipando del vuoto, non possono essere lacerati retexi (v. 529; cfr. McIntosh Snyder, 1983, pp. 38-39). Tra il filo non sfilacciabile dell’atomo e lo scioglimento assoluto del vuoto si installano i corpi, la cui textura ha una tenuta relativa perché partecipa allo stesso tempo di entrambi gli stati della materia.

3. Simulacri

Nell’universo di Lucrezio non esiste un principio fisico o metafisico capace di raccogliere insieme e integrare le membra sparse della materia. Non c’è actio in distans, ovvero una forza (tipo la gravità newtoniana) che fa cadere nel proprio laccio tutti i corpi allo stesso tempo. Le cose comunicano per contatto e il vuoto riesce sempre ad aprire un varco tra le cose, che richiede del tempo per essere attraversato. Il tessuto dell’universo è lacerato, è un tessuto-non-tessuto, e l’annodatura può riguardare di volta in volta solo un ambito circoscritto della realtà. “Il baratro del vuoto è tale che neanche splendenti fulmini potrebbero con la loro corsa, scorrendo nel continuo sfuggire del tempo, percorrere tutto, nel loro cammino, e neppur far sì che per loro si accorci la via” (Lucrezio 1992, I, vv. 1003-1007). Anche la luce ha una velocità finita.

Dentro l’universo di Lucrezio, neppure il tempo è un principio unificante. Non esiste una “memoria del mondo” che funziona come superficie di registrazione sulla quale resterebbe traccia di tutto ciò che accade. Il tempo non è un archivio ma uno scuotimento che fa andare i continenti alla deriva: di alcune regioni del passato ci ricordiamo e teniamo conto, altre sono avvolte dalla nebbia, altre ancora si sono inabissate per sempre, “né noi riusciamo a riprendere ciò con la memoria: a mezzo fu infatti gettata una pausa nella vita” (IV, vv. 858-859). Per la materia che è capace di percezione e memoria – gli animali superiori e gli uomini – la dimensione fondamentale del tempo non è la simultaneità del presente, né l’inscatolamento di presente e passato, ma l’essere dopo, il ritardo, lo scollamento tra l’adesso e il prima. Il ritardo è nel tempo ciò che il vuoto è nello spazio. Tranne i corpi che adesso sto toccando con le dita, quelli che percepisco con gli occhi, le orecchie, il naso e l’immaginazione mi appaiono per mezzo di simulacri. È la presenza dei simulacri a spiegare il fatto che la mia conoscenza è in ritardo sulle cose. Che cosa sono i simulacri, come si producono e perché il nostro commercio con essi significa un necessario ritardo della conoscenza rispetto al mondo?

Le cose sono circondate dallo stesso vuoto di cui sono intramate. Il vuoto interno, oltre a essere la ragione della distruggibilità delle cose, è anche ciò che permette loro di non essere ammassi amorfi ma di avere una textura. Il vuoto esterno è il “principio della caduta” (I, v. 339), ciò che permette alle cose di spostarsi, abbandonare un luogo per occuparne un altro, sottrarsi a un incontro e lasciarsi coinvolgere in nuovi. Il movimento di un corpo – anche se, mettiamo, avviene verso l’alto – è sempre una caduta, un cedere, che in latino significa andarsene, abbandonare. Ce ne accorgiamo soprattutto quando le cose ci scappano di mano, scivolano via, si allontanano. Ma le cose scappano anche a se stesse, perdono i pezzi sempre e comunque. I frammenti di questa lenta e inarrestabile esplosione sono i simulacri. I simulacri sono pellicole di atomi che si staccano dalle cose allo stesso modo in cui il sole manda i raggi, il legno che brucia esala fumo e i serpenti depongono la pelle quando fanno la muta (IV, vv. 54-64).

Le ragioni per cui una cosa perde la materia sono due, una esogena, l’altra endogena. Una cosa può essere aggredita da altre cose e in questo modo subisce una diminutio, per esempio quando un’accetta colpisce un tronco e le schegge volano. L’emanazione dei simulacri, invece, accade senza intervento dall’esterno e non c’è modo di fermarla. A che è dovuta l’inarrestabile emorragia? Lucrezio dice: a una parvula causa (V, v. 193), probabile traduzione latina della palsis di Epicuro. La parvula causa è la pulsazione, la vibrazione che riguarda i fili atomici già integrati dentro la textura della cosa. A noi le cose sembrano ferme, invece tremano in continuazione. Per capire che cosa vuol dire, torniamo per un istante a considerare le relazioni interatomiche, il modo in cui i primordia si annodano.

Gli atomi cadono nel vuoto e prima o poi finiscono per incontrarsi, allora possono rimbalzare e respingersi oppure aderire. L’uno e l’altro comportamento dipendono da qual è il coefficiente di viscosità dei fili atomici, cioè da quanto sono hamati (II, v. 394), uncinati, dunque da quanto sono capaci di contessersi, fare presa sugli altri fili. Per le molecole e i corpi più grandi la differente viscosità è dovuta ai pieni e ai vuoti, alle concavità e alle convessità delle superfici. Aderiscono meglio l’una all’altra le cose le cui superfici sono morfologicamente complementari (VI, v. 1085) come succede ad esempio con le pietre e la calce, la colla e il legno, il vino e l’acqua. Ma anche una volta che si sono annodati e hanno “fatto corpo”, i fili atomici non smettono di avere un peso, non depongono la propria tendenza a strapparsi al tessuto. Il sommarsi in ogni atomo della viscosità (gregaria) con il peso (solitario) non dà come risultato la quiete del corpo ma la sua continua vibrazione. Ogni filo del tessuto tende a restare annodato agli altri ma anche a staccarsi. Negli atomi che si trovano alla superficie del corpo la tendenza a staccarsi prevale sulla viscosità perché non ci sono pellicole coibenti che li frenano. Questo è il motivo per cui da ogni corpo – anche dagli dèi – partono in continuazione pellicole che si mettono a vagabondare per lo spazio a una velocità altissima (IV, vv. 30-32).

La natura separatista dell’atomo costringe i corpi a fare sempre nuovo spreco di sé. Ciò spiega “in che modo facile e rapido si generino i simulacri, e continuamente defluiscano dai corpi, e cadendo se ne distacchino” (vv. 142-143). I simulacri sono i tessuti più esterni delle cose, che le abbandonano. Di solito le cose le conosco dopo che i loro simulacri mi hanno investito e, per quanto veloci, per spostarsi da un luogo all’altro devono pur sempre attraversare “l’intervallo dell’Aria” (v. 198). Ecco perché la mia esperienza è sempre in ritardo rispetto alla presenza effettiva delle cose: percepire le cose vuol dire essere stati colpiti dai simulacri, dunque conosco le cose non come esse sono adesso ma come erano qualche istante fa, cioè prima che i simulacri mi raggiungessero. I simulacri ci fanno incontrare le cose “in differita”, anche se magari di pochissimo. Grazie ai simulacri le cose vengono conosciute anche quando non mi stanno letteralmente addosso. I simulacri garantiscono quel relativo scioglimento dalla presenza effettiva senza il quale l’esperienza sarebbe messa davanti all’alternativa tra essere assediata dalle cose oppure non essere.

4. Membrane

I simulacri sono come le ombre luminose che dai velari colorati piovono sulle teste degli spettatori a teatro, “quindi, se le tele emettono tinte dalla superficie anche ogni cosa dovrà emettere sottili immagini […]. Esistono dunque tracce (vestigia) sicure delle forme, che dovunque vanno volando, dotate di tessuto ultraleggero (subtili filo)” (vv. 84-87). Vestigium – qui usato come sinonimo di simulacro – è l’impronta che lo strascinamento della toga (vestis) lascia sul terreno. I simulacri sono dunque le “tracce tessili” che i corpi lanciano ai quattro venti.

I simulacri ci arrivano addosso e toccano i nostri organi di senso permettendoci così di riconoscere l’oggetto, oppure – questo riguarda una specie particolare di simulacri che vedremo tra poco – passano attraverso i pori e toccano direttamente l’anima. Nel mondo di Lucrezio per “essere” bisogna toccare e essere toccati, lo stesso vale per il “conoscere” (Serres, 2000, p. 47). Conoscere vuol dire essere toccati dai corpi e dai loro simulacri. Ogni corpo è tessuto e ogni conoscenza è tatto, anche la verità ricavata dai simulacri. Ciò che caratterizza i simulacri rispetto ai corpi è soltanto la diversa consistenza del tessuto: i corpi sono per lo più una stoffa fitta, i simulacri sono veli il cui spessore è minimo. Il tessuto dei simulacri è così rado che, se ci colpisce per un tempo troppo breve, manco ce ne accorgiamo (come nel regno dei corpi succede con la polvere, lo spruzzo dell’argilla, la nebbia, certe piume degli uccelli, i fiocchi, le carcasse degli insetti più piccoli e “i fili sottili del ragno di fronte a noi” – Lucrezio 1992, III, v. 383). Presi a uno a uno, i simulacri sono troppo tenui per risvegliare la nostra attenzione. I simulacri sono percepibili soltanto in sequenza, devono cioè battere e ribattere sugli organi di senso prima che li captiamo e riconosciamo (fanno eccezione i simulacri dell’Aria e quelli che vediamo in sogno).

Ogni corpo – la pietra, le radici delle piante, le vette delle montagne, il fegato di un animale, la zampa – produce simulacri. Massimamente riconoscibile è il simulacro dei corpi superficiali, liminari, ad esempio la pelle oppure la corteccia degli alberi. Un privilegio dei simulacri emanati dalle superfici è che sono “capaci di lanciarsi in quell’ordine in cui erano conservando l’esterna figura” (IV, vv. 68-69). Ovvero: un simulacro che proviene, mettiamo, dal fegato di un animale fa una certa fatica a venire allo scoperto e gli ostacoli che incontra sul cammino lo disintegrano. I simulacri delle superfici, invece, tendono a conservare la propria forma. Siccome davanti a sé non trovano ossa o tessuti troppo fitti, possono viaggiare per un certo tempo senza perdere l’aspetto iniziale, dunque permettono di riconoscere con facilità il corpo che li ha emanati. Un corpo non è soltanto là dove lo stringono i suoi confini fisici, perché sta agendo anche per mezzo dei simulacri che a ogni istante lo abbandonano e possono raggiungere distanze notevolissime. Date certe condizioni – assenza di ostacoli oppure la presenza di ostacoli particolarmente porosi – non c’è limite al tragitto che i simulacri possono coprire.

I simulacri sono una specie del genere di cose che sono le membrane. Nel processo ininterrotto di auto-organizzazione della materia, la membrana ha una funzione fondamentale perché separa l’interno di un corpo dal suo fuori, regola i flussi che entrano e quelli che escono. La Terra appena nasce si copre con la membrana della vegetazione, piante, alberi, ecc. (V, vv. 783-784). Anche gli animali sono parti della membrana terrestre e ciascuno di essi è a sua volta imbozzolato dentro una membrana: gli uccelli, il cui embrione è protetto da un guscio di calcare e gomma, vengono al mondo mettendo le piume, i mammiferi, cui nei mesi della gestazione ha fatto scudo il ventre delle femmine, hanno setole e peli, “quasi tutte le cose sono protette o da cuoio, o anche da conchiglie, o da pelle robusta, o da scorza” (IV, vv. 935-936). I vestiti che ci fabbrichiamo e le abitazioni sono gli analoga delle membrane naturali e servono principalmente a conservare il calore. Ma anche ciò che non ha una membrana protettiva – la pietra, il libro, il sole, il mare – emette membrane: i simulacri sono le membrane mobili delle cose e se vengono intercettati da un essere senziente funzionano come un tessuto connettivo tra lui e le cose. Le membrane biologiche mettono in comunicazione l’ambiente interno e l’ambiente esterno di un corpo, le membrane simulacrali mettono in comunicazione un corpo qualsiasi e un corpo senziente.

5. Carne e ossa

Le cose non aspettano noi per produrre i simulacri. Lo fanno e basta. Gl’innamorati più o meno corrisposti sanno che non smetteranno di essere colpiti dalle immagini dell’amata, che lo vogliano oppure no. La ragazza è magari dalla parte opposta della città ma le sue immagini attraversano strade, mura, porte e serrature per colpire la nostra anima. Che differenza c’è tra vedere la fidanzata in carne e ossa, e vederla quando è assente? È un pregiudizio e un inveterato abito di pensiero quello di distinguere tra una percezione esterna e una immaginazione interna, fare la differenza tra la realtà e la psicologia. Invece per Lucrezio percepisco la ragazza sia quando è vicina e presente, sia quando è lontana e assente. Non c’è una differenza radicale tra la presenza che vedo e l’assenza che immagino, perché in entrambi i casi si tratta di simulacri emessi dell’amata e che mi toccano. Un sogno notturno può eccitare esattamente come avere l’amata davanti a sé, se non di più, e le polluzioni notturne ne sono una prova (IV, vv. 1054-1056; vv. 1091-1096). Tra sognare, vedere e toccare la differenza consiste nel tragitto più o meno lungo che i simulacri devono fare per colpirmi, ma alla fine si tratta pur sempre di pellicole che investono gli organi di senso oppure, se stiamo dormendo, direttamente l’anima – la quale ha anch’essa la sua textura (III, v. 209) – dopo che ci hanno attraversato la pelle.

L’emissione di simulacri significa una continua perdita di materia per i corpi, ma Lucrezio, oltre a dirne il carattere entropico, la descrive come una specie di copiosità: “ciò che si trova alla superficie trabocca (abundat) dai corpi e di lì lo lanciano via (iaculentur)” (IV, vv. 145-146). Tra le numerose analogie che raffigurano l’emissione dei simulacri, la più ricorrente è quella del sole che butta raggi in tutte le direzioni “perché subito tutte le cose ne siano piene” (v. 162). Il treno dei simulacri è una disseminazione gloriosa che riempie ogni angolo dello spazio. Appunto perché il loro tessuto è leggerissimo e tenuissimo, i simulacri fanno ressa ma senza intasare, “in qualunque tempo ogni tipo di simulacri è lì pronto, e dovunque a disposizione” (vv. 798-799). Se ci punge vaghezza di vedere la fidanzata che non c’è, basta che ci concentriamo un poco e non possiamo mancare quel volto, quei capelli, quello sguardo, perché i suoi simulacri sono già lì, più o meno come i simulacri di ogni altra cosa, pronti per farsi notare. Pensare a qualcuno, immaginarlo, non vuol dire spremersi le meningi per fabbricare la sua immagine con la nostra testa ma setacciare la massa dei simulacri che ci avvolgono e trovarlo. Si dice che dopo la battaglia di Farsalo il volto di Cesare ha brillato per alcuni istanti su tutti i cieli del Mediterraneo. Non c’è niente di soprannaturale in questo, quel che è successo è che in tanti hanno pensato a Cesare nello stesso momento e hanno visto il simulacro vittorioso che li stava aspettando. Non soltanto Cesare, ognuno di noi ha milioni di affiches con la propria faccia che svolazzano ovunque: la nostra celebrità potenziale diventerebbe attuale se soltanto gli altri pensassero a noi un po’ più spesso.

6. Aria

Toccare, vedere, immaginare, in tutti e tre i casi ho a che fare con il tessuto delle cose, si tratta sempre di percezione: qualcosa viene tastato senza distanza oppure visto attraverso i simulacri che ci investono attraverso un interspazio molto ridotto (vedere “in carne ed ossa”) oppure viene visto attraverso un interspazio relativamente grande (“immaginare”). Rispetto agli altri due modi della percezione, il tastare con le dita riduce al minimo il margine d’errore: a meno che io non sia affetto da qualche malattia che mi stravolge, le cose che tocco con le mani sono così come le sento. Invece, nel viaggio che i simulacri hanno fatto per raggiungerci può succedere che gli urti contro degli ostacoli li hanno deformati al punto da renderne irriconoscibile la fonte. Ad esempio: in fondo alla valle c’è una torre quadrata ma le pressioni dell’atmosfera hanno smussato gli angoli dei suoi simulacri e adesso la vedo rotonda (vv. 353-363). Se siamo a casa e pensiamo al collega che ci vuole fare le scarpe, è probabile che faremo maggiore attenzione ai simulacri dove il volto nel tragitto è stato modificato in modo grottesco. Quando ci sono di mezzo i simulacri la possibilità dell’equivoco è dietro l’angolo, ma non è necessariamente un male, perché l’equivoco significa un certo sganciamento dalla cosa, il fatto che io e il mondo non sempre ci prendiamo (come quando si dice: “quei due fra di loro non si prendono”). Sbagliarsi è una prova che i nodi che ci tengono stretti alle cose non sono vincoli e possono sciogliersi da un momento all’altro.

Le trasformazioni più fantastiche sono quelle subite dai simulacri che incontrandosi nella regione dell’Aria non si limitano a essere modificati ma si cuciono assieme. Questi simulacri fanno come le nuvole che unendosi prendono forme mostruose e incredibili. Essi non hanno alcuna referenza oggettiva, non rappresentano nulla se non se stessi.

Spesso allora appaiono volti volanti di Giganti, che proiettano larga ombra, a volte grandi montagne, e massi strappati alle montagne avanzarsi, e scorrere dinanzi al sole: poi appare un mostro che trascina e guida altri nembi. E non smettono mai di cambiare il loro aspetto, dissolvendosi, e di trasformarsi nei contorni di forme d’ogni tipo (vv. 140-142).

Anche per Platone il carattere simulacrale ha a che fare in primo luogo con oggetti di grandi dimensioni, ad esempio un colosso di pietra i cui piedi devono essere scolpiti più piccoli e la testa più grande del dovuto in modo che lo spettatore veda un essere proporzionato nonostante le deformazioni dovute all’angolo di visuale. Però i simulacri dell’Aria di cui parla Lucrezio sono “grandi” indipendentemente dalle dimensioni, sono grandi perché sono fatti di protesi che continuano ad aggiungersi, la loro natura è di contessersi con altri simulacri e crescere. Ecco spiegate le allucinazioni e il fatto che, se ci concentriamo, possiamo vedere Centauri, Chimere, Scille, Cerberi, e l’intera materia dei sogni: si tratta di simulacri-collages prodotti dal caso (v. 741) i quali, grazie a una tenuitas più accentuata rispetto ai simulacri rappresentativi, durante il sonno attraversano i pori della pelle e toccano il tessuto dell’anima senza la mediazione degli organi di senso. Inoltre, a differenza dei simulacri con una referenza più o meno precisa, non hanno bisogno di colpirci in sequenza: siccome toccano direttamente l’anima, la cui stoffa è più ricettiva delle superfici sensoriali, un unico simulacro-collage è sufficiente per farsi notare.

L’Aria che annoda insieme i simulacri mostra la forza inventiva e combinatoria che la Terra possiede soltanto nei momenti più tardi della sua esistenza. Quando gli anni l’hanno segnata, la Terra non produce più cose nuove, nuove specie di viventi, e si prepara a replicare le forme già fatte: allora, e per un breve tempo, si mette a partorire creature con membra disarmoniche e sproporzionate, incapaci di accoppiarsi e di nutrirsi, macchine celibi sigillate in se stesse (V, vv. 837-854). La fatica della creazione ha sfinito la Terra e i mostri sono il colpo di coda di una physis in procinto di delegare agli stratagemmi della riproduzione sessuata ciò che prima faceva per gemmazione e da sola. L’Aria riprende la tardiva vocazione frankensteiniana della Terra e la rende permanente perché, al contrario della Terra, nessun lavoro l’affatica, né essa può invecchiare. Dentro l’Aria, l’emissione dei simulacri, la spesa che le cose fanno di sé, diventa spontaneamente combinazione, rapsodia. L’Aria si lascia attraversare e turbare (IV, 135) dai veli simulacrali che incontrandosi si contessono, ma torna subito liscia e imperturbata. La Terra è come un operaio che prima o poi si stanca, l’Aria assomiglia a un bambino che non ne ha mai abbastanza di giocare. La daedala tellus (I, v. 7), la Terra-artefice, fa un mestiere, un lavoro. L’Aria, invece, non porta alcun merito per le sue creature folli e imprevedibili, la tessitura dei collages non è arte né ingegno (IV, vv. 792). Di qui il sospetto di Lucrezio – allergico, come tanti poeti, alla bellezza ottenuta troppo a buon mercato – verso le creature dell’Aria. In un battito di ciglia l’Aria produce tutti gl’ircocervi possibili e immaginabili e li mette a disposizione di chiunque, il suo è un teatro senza perimetro dove suoni e visioni si dislocano e raggiungono più o meno qualsiasi posto in brevissimo tempo. Con il lessico di Platone potremmo dire che l’Aria è sofistica, fa come i sofisti, è una cattiva maestra, è pura propaganda e scriteriata perché non sceglie e non seleziona ma piglia tutto, lo mette insieme e ce lo butta addosso.

Gli scultori di simulacri, viene detto nel Sofista, hanno un modello da riprodurre, ma di solito sbagliano perché non tengono presente la sumplokē delle coordinate, il nodo di lunghezza, larghezza, profondità, lo spazio oggettivo del modello. Più che imitare il modello, gli scultori adattano la loro opera al punto di vista dei futuri spettatori, e così “realizzano nelle immagini che essi fanno, non le proporzioni che sono reali, ma invece quelle che possano apparire belle volta per volta”. Adattandosi alla prospettiva di ciascuno, l’oggetto riprodotto perde il proprio statuto di paradigma unico e uguale per tutti. Per Lucrezio ai simulacri dell’Aria spetta la falsità che secondo Platone caratterizza i simulacri in generale ma per ragioni differenti: il simulacro platonico “rimpicciolisce” l’oggetto “grande”, disperde l’oggetto nella moltitudine degli sguardi. Il simulacro platonico perde un potere di referenza che il simulacro-collage di Lucrezio, invece, non ha mai avuto né preteso. Il simulacro-mostro “ingigantisce”, cuce tessuto a tessuto senza alcun limite di convenienza o disciplina, è fin dall’inizio sganciato dal dovere di rappresentare il mondo. Il simulacro-scultura di Platone consuma la verità dell’eidos e ricaccia le anime dentro la privatezza dei punti di vista, quello aereo di Lucrezio raduna folle di dormienti, provoca sogni collettivi e gratuiti cui solo la superstizione vuole assegnare per forza un significato.

Rispetto alla caduta dei fili atomici paralleli dove tutto è separato da tutto, il contessersi dei simulacri nell’Aria significa la situazione in cui tutto può comunicare con tutto. Per Platone la separazione assoluta e l’intreccio disordinato sono operazioni intellettuali andate a vuoto, per Lucrezio sono una realtà, rappresentano i poli opposti del processo naturale che tesse la materia: dalla massima semplicità della cardatura alla massima complicazione di un intreccio senza capo né coda.

7. Parole

L’Aria è la rivale del poeta. La prima fa in modo spontaneo e dilettantesco ciò che il secondo fa con studio, ma la materia di entrambi è la stessa, anche le parole sono vesti simulacrali da cucire assieme. Poetare vuol dire coeptum pertexere dictis (I, v. 418), tessere un argomento con le parole. I nodi delle lettere e delle frasi traspongono su un altro piano – la linea della voce, il vuoto della pagina – i tessuti della realtà. I corpi sono texturae, nodi di elementi atomici e, quando parliamo, la “mobile articolazione della lingua (daedala lingua) e l’atteggiarsi delle labbra” (IV, vv. 551-552) non fanno che riprendere e rendere perspicua la tessitura silenziosa dei corpi.

“Le parole” ha scritto Yves Bonnefoy “nascono d’estate, stagione della muta durante la quale i serpenti abbandonano dietro di sé l’involucro fragile e trasparente” (Bonnefoy, 1987, p. 202). Per toccare le cose con le parole, dobbiamo già essere stati stimolati dai simulacri percettivi, i simulacri verbali vengono dopo. Però, grazie a questo ritardo, le parole rendono possibile il gioco combinatorio più inventivo e arrischiato. Con le parole possiamo evocare i simulacri delle cose senza doverci puntellare sul mondo (Holmes, 2005, p. 559). Il rischio che corre una percezione senza parola è di farsi sedurre in modo del tutto casuale dalle immagini che ci stanno addosso oppure, a causa dell’abitudine, di fare attenzione sempre e soltanto alle stesse cose. Invece, per mezzo delle parole ci destreggiamo dentro la selva dei simulacri percettivi e riusciamo a orientare la nostra attenzione e distinguere. È grazie al relativo désengagement delle parole che possiamo gettare ponti tra le cose che sono reciprocamente distanti e scavare fossati tra quelle vicine: di qualcuno diciamo che è ricco anche se in questo momento non stringe in mano i suoi lingotti d’oro, di un altro diciamo che è povero perché il denaro che ha in tasca gli è stato imprestato. Eventi di parola sono le leggi, i contratti, le istituzioni, cioè i nostri foedera, le congiunzioni tra fatti estranei e le disgiunzioni tra cose affini, che chiamiamo: ricchezza, povertà, libertà, schiavitù, guerra, concordia, ecc. (Serres, 2000, pp. 158-159).

Il De rerum natura vuole restituire attraverso il proprio testo-simulacro la realtà di tutte le cose (Thury, 1987, p. 271). Argomento del poema sono la cardatura degli exordia, l’intreccio dei corpi e i patti degli uomini. Lucrezio chiama i propri versi vestigia parva (Lucrezio 1992, I, v. 102): se ci ricordiamo dell’etimologia di vestigium (l’orma che un vestito lascia sul suolo) possiamo dire che il De rerum natura è un tessuto di “tracce coerenti” in cui s’è impresso il tessuto più o meno slabbrato del mondo. Il tessuto poetico lucreziano è parvus, incomparabilmente più compatto e meglio annodato rispetto ai simulacri dell’Aria che si disperdono tra le nuvole (IV, vv. 181-182). Il tessuto mostruoso e precario che si tesse nell’Aria è di per sé più fedele al tessuto-non-tessuto di un mondo dove ogni annodatura presuppone e anticipa lo sfilacciamento. Però, per dire e comprendere il disordine e l’incoerenza del tessuto-non-tessuto mondano è necessaria la textura fitta del poema, un po’ come per parlare in modo sensato dell’ubriachezza dobbiamo essere sobri. Compito del poema non è mimare il caos fecondo della Natura ma rendercelo comprensibile. È attraverso la memoria esercitata da noi lettori – lo sguardo retrospettivo che tiene assieme i sei Libri del poema – che veniamo a conoscere la smemoratezza della materia, il fatto che innumerevoli tessuti della realtà sono già stati lacerati senza lasciare tracce.

8. Dèi

È sbagliato limitarsi a dire che la teoria atomistica di Lucrezio risente, del tutto o in parte, della prassi della tessitura. La costellazione di senso dentro la quale si colloca il De rerum natura è più ampia, a quel che è già stato detto bisogna aggiungere che la comprensione della realtà come tessuto è anche e soprattutto una eredità mitologica. Il mito è di per sé textura. Non perché è un “testo”, orale o scritto, ma perché l’incontro con il dio, di cui il mito è il racconto, è un evento di annodatura. Walter Otto parlava del Weben, il tessere, di Zeus. Karol Kerényi parlava di Verwobenheit, l’essere-intrecciati di percezione e mondo nell’istante della epifania divina. Gli dèi altro non sono che differenti aspetti del mondo, coincidono con l’essere di quella Natura di cui anche gli uomini sono parte. Gli dèi del mito autentico sono species della “Fortuna che tutto governa” (V, v. 107), figure coerenti del caso, tessuti che resistono dentro la sfilacciatura generale. Divino è il “cadere” e “rapprendere” del mondo in un certo modo, il dinamismo figurale della Natura. Se è vero che ogni divinità partecipa del tessuto del mondo, Lucrezio si rivolge soprattutto a Venere perché è la dea fabbricatrice di veli, “Afrodite che tesse […], natura madre tessitrice” che fila “l’artistico tessuto del corpo” (Bachofen, 2020, p. 709-712). “I tenaci nodi di Venere” (Lucrezio 1992, IV, v. 1205) producono la più serica e luccicante delle stoffe, ma anche la più scabra e cupa. Venere è la Terra, l’Aria, la Natura, i corpi. Nella visione che Lucrezio ha ispirato a Walter Otto, la dea

placa le onde e folgora la superficie delle acque come fossero immenso gioiello. Ella è l’incantatrice divina della pace dei mari e delle navigazioni tranquille, così come lo è della natura in fiore […]. [Q]uesto regno tanto vasto abbraccia tutto l’universo, comprendendo pure l’orrore e la distruzione. Nessuna potenza può portare tanta discordia e confusione quanto costei […]; solo attraverso quest’ombra scura il luminoso incanto di Afrodite assurge a creazione totale (Otto, 2004, p. 99).

L’atomismo è la resa filosofico-poetica delle stoffe del mondo, con le loro pieghe, i volumi e gli strappi. Lucrezio canta il mondo-tessuto e libera il mito dalle pastoie della devozione. Il vero mito sta dalla parte opposta delle due esperienze che per Lucrezio sono le più disdicevoli: l’infatuazione e la religione devozionale. L’una e l’altra equivocano il nodo dell’esperienza e ne fanno una saldatura. Agli uomini che si struggono d’amore Lucrezio consiglia di sconvolgere con nuovi colpi le vecchie ferite e “vagare con Venere vulgivagante” (Lucrezio 1992, IV, v. 1071), comportarsi da farfalloni. Non è l’evento amoroso a essere di per sé un male, ma la viscosità monogamica e compiaciuta. Il devoto cade nella stessa trappola perché vuole sedurre gli dèi, legarli a sé con atti superstiziosi, prendere la loro esistenza libera e ridurla ai termini di una contabilità pretesca. Gl’innamorati patologici e i sacerdoti non accettano il carattere avventuroso e lasco dei nodi che Venere di volta in volta stringe. Comportandosi così, entrambe le categorie finiscono con l’irrigidire il tessuto del mondo, trasformano il nodus in vinculum, saldano le parti come farebbe Efesto2. Invece, i nodi atomici e simulacrali – i corpi e le immagini, l’essere e la sua verità – non sono vulcanici ma venusei e nella loro stretta c’è già lo scioglimento.

Bibliographie

Bachofen, J.J., 2020, Il simbolismo funerario degli antichi, traduzione italiana di Mario Pezzella, Jouvence, Milano; ed. or. 1859, Versuch über die Gräbersymbolik der Alten, Bahnmaier, Basel.

Bonnefoy, Y., 1987, Récits en rêve, Mercure de France, Paris.

Dorfles, G., 1971, Senso e insensatezza nell’arte oggi, Ellegi, Roma.

Dubova, S.S., 2017, On The Archaic Meaning of the Word Filum in Apuleius, in “Philologia Classica”, xii, 2, pp. 136-141.

Heidegger, M., 2013, Il “Sofista” di Platone, traduzione italiana di Alfonso Cariolato et al., Adelphi, Milano; ed. or. 1992, Platon: Sophistes, Klostermann, Frankfurt a.M.

Holmes, B., 2005, Daedala Lingua: Crafted Speech in De Rerum Natura, in “The American Journal of Philology”, cxxvi, 4, pp. 527-585

Lackenbacher, H., 1922, Zur Etymologie von filum, in “Glotta”, xii, 1/2, pp. 127-137.

Lucrezio, 1992, De rerum natura, traduzione italiana di Guido Milanese, Mondadori, Milano.

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Nail, T., 2018, Lucretius I: An Ontology of Motion, Edinburgh University Press, Edinburgh.

Otto, W.F., 2004, Gli dèi della Grecia, traduzione italiana di Giovanna Federici Airoldi, Adelphi, Milano; ed. or. 1929, Die Götter Griechenlands, Friedrich Cohen, Bonn.

Serres, M., 2000, Lucrezio e l’origine della fisica, traduzione italiana di Paola Cruciani e Anna Jerominidis, Sellerio, Palermo; ed. or. 1977, La Naissance de la physique dans le texte de Lucrèce, Minuit, Paris.

Thury, E.M., 1987, Lucretius’ Poem as a Simulacrum of the Rerum Natura, in “The American Journal of Philology”, cviii, 2, pp. 270-294.

Notes

1 Lucrezio rifiuta di tradurre atomos con particula (come invece fa Cicerone) perché non ha la comprensione particellare-galileiana dell’atomo che oggi ancora gli attribuiamo. Su questi problemi cfr. Nail, 2018, p. 11 e passim. Retour au texte

2 L’immagine dei cani che dopo l’amplesso non riescono a staccarsi (Lucrezio 1992, IV, vv. 1203-1204) è una versione comica della proposta che l’Aristofane del Simposio mette in bocca a Efesto, il quale così si rivolge agli amanti: “Forse agognate questo, di congiungervi indissolubilmente l’uno con l'altro in una sola cosa, così da non lasciarvi tra di voi né di giorno né di notte? Perché se bramate questo, sono pronto a fondervi insieme e a comporvi in una sola natura fino al punto che da due diventiate uno solo, e finché restate in vita, vivrete in comune l’un l’altro come un essere solo, e quando poi sopraggiunga la morte, là, nel profondo dell’Ade, siate ancora uno soltanto, invece di due, essendo insieme anche da morti”. Saldare gli amanti come metalli è opera vulcanica di morte opposta allo spirito vagabondo e vitale di Eros. Retour au texte

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Référence électronique

Tommaso Tuppini, « Fili e tessuti, cose e simulacri », K [En ligne], 6 | 2021, mis en ligne le 01 juin 2021, consulté le 14 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1184

Auteur

Tommaso Tuppini